il podcast come storia orale
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La creazione e l’ascolto di podcast è un fenomeno in fortissima crescita negli ultimi 5 anni e svela un utilizzo da parte di tutte le fasce di età, provenienza e genere. Ma in realtà, il podcast si inserisce in una lunga tradizione di trasmissione di storie orali.
La storia orale – o “testimonianze rese oralmente da parte di protagonisti o partecipanti agli eventi su cui verte la ricerca” – ha giocato un ruolo importante nella trasformazione di diverse discipline dagli anni ‘60/’70, in particolare con gli studi svolti da Luisa Passerini e Alessandro Portelli, elevando la storia orale da una fonte aggiuntiva, ancillare ad una fonte centrale nella ricerca storiografica. Questa trasformazione era spinta in parte anche dalla volontà di sovvertire il rapporto tradizionale soggetto-oggetto di ricerca. In questo rapporto tradizionale la relazione fra soggetto e oggetto era unidirezionale/dicotomica. Con l’utilizzo della storia orale come fonte di raccolta e diffusione di testimonianze e di saperi, il rapporto soggetto-oggetto diventa bidirezionale e l’autoriflessività del soggetto viene anch’essa messa al centro della ricerca. In sintesi, si andava riconoscendo come la storia orale aveva il potere di fornire uno spazio di libertà ed autoaffermazione per que3 soggett3 che vengono coinvolti nella ricerca, cui viene permesso di raccontare la propria storia nei propri termini.
Scrive Portelli:
“Ne deriva dunque che la storia orale è un’arte, oltre che dell’ascolto, della relazione: la relazione fra persone intervistate e persone che intervistano (dialogo); la relazione fra il presente in cui si parla e il passato di cui si parla (memoria); la relazione fra il pubblico e il privato, l’autobiografia e la storia; la relazione fra oralità (della fonte) e scrittura (dello storico).”
Il ruolo della storia orale e’ stato anche molto importante negli studi di ricerca femministi, dove le fonti orali sono state valorizzate come uno strumento capace di dare voce soprattutto a soggetti marginalizzati. Facendo riferimento alla ricerca sul femminismo sindacale, Frisone riporta che “la valorizzazione della soggettività di chi narra”, implicito nella storia orale, “crea una continuità ideale (metodologica e concettuale) rispetto all’oggetto stesso della narrazione: la ‘presa di parola’ da parte delle donne – soggetto storicamente e storiograficamente spesso relegato al mutismo – costituisce un topos fondamentale nella sua rappresentazione (sia auto che etero prodotta)”. Inoltre, la storia orale nelle ricerche femministe subisce un’ulteriore trasformazione ed arricchimento come strumento di ricerca: mentre prima la storia orale veniva utilizzata meramente per raccogliere esperienze, e prevalentemente da parte di un soggetto ricercatore maschile, eterosessuale, bianco, nelle mani di ricercatrici femministe la storia orale diventa un progetto collaborativo e dinamico che richiede alle stesse intervistatrici di posizionarsi soggettivamente – anche all’interno della ricerca – prima di raccogliere le interviste. Questo posizionamento è stato spinto in particolare da Donna Haraway.
Allo stesso tempo, la storia orale presenta anche alcuni importanti limiti e l’utilizzo di tale strumento richiede una consapevolezza del “diverso processo di formazione della fonte orale”.
In primo luogo, il processo di formazione dell’intervista è per definizione un processo imprevedibile e dunque soggetta a mutamenti inattesi. Portelli scrive che:
“A differenza della maggior parte dei documenti di cui si avvale la ricerca storica, infatti, le fonti orali non sono reperite dallo storico, ma costruite in sua presenza, con la sua diretta e determinante partecipazione. Si tratta dunque di una fonte relazionale, in cui la comunicazione avviene sotto forma di scambio di sguardi (inter/vista), di domande e di risposte, non necessariamente in una sola direzione. L’ordine del giorno dello storico si intreccia con l’ordine del giorno dei narratori: quello che lo storico desidera sapere può non interamente coincidere con quello che le persone intervistate desiderano raccontare. Il risultato è che l’agenda della ricerca può essere radicalmente trasformata da questo incontro: a me è successo sistematicamente di dovere non solo ampliare l’ambito della ricerca ma anche trasformare l’ottica e il punto di vista grazie all’impatto dei narratori. (…) Per questo, il lavoro con le fonti orali è in primo luogo un’arte dell’ascolto, che va ben oltre la tecnica dell’intervista aperta. Spesso, infatti, è proprio oltre quelli che gli interlocutori ritengono i confini dell’intervista e i termini della rilevanza storica che emergono le conoscenze più imprevedibili.”1
Quest* scrittor* invitano anche a riconoscere come l’intervista e la storia orale non siano una pratica neutra. Lato soggetto (o persona intervistatrice), l’intervistatrice non solo determina il flusso dello scambio orale, ma è essa stessa parte integrante della ricerca: in interviste basate su un flusso libero, l’intervistatrice – così come la persona intervistata – diventa sia soggetto e oggetto. Scrivono Portelli/Passerini: “L’intervista/la storia orale non è una pratica neutra. Le fonti orali sono sempre il risultato di un rapporto a due. Quindi quello che c’è dentro la fonte orale dipende in gran parte da quello che il ricercatore ci mette sotto forma di domande, stimoli, dialogo, rapporto personale e atteggiamenti impliciti. La sua stessa presenza è fonte di mutamenti possibili.” Lato oggetto (o persona intervistata), Ong ci invita a riconoscere che l’oralità stessa è una performance che passa attraverso corpi incarnati, situati e sessuati/gendered.2
Questa infarinatura sul potere della storia orale, sulle dinamiche coinvolte e anche sui limiti di tale strumento sono stati di fondamentale importanza per l’impostazione e l’esecuzione di questo Progetto.
- https://www.aisoitalia.org/wp-content/uploads/2014/04/Alessandro-Portelli-Storia-orale-un-lavoro-di-relazione.pdf ↩︎
- Ong, W. (1986), “Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola”, Bologna: Il Mulino ↩︎