Una storia

Tra pieghe, pelli e il tempo

Luisa La Gioia

Foto di Luisa La Gioia

Sono venuta al mondo socializzata femmina prima del tempo, “prematura” dicono la cultura e la medicina. A cinque anni ho fatto la “primina” e a 22 ho fatto coming-out dicendo che mi piacevano anche le femmine, prima di dirlo a me, prima del tempo, prima di capire che la mia parola e il mio sentire fossero: lesbica. Avevo fretta. Dopo, a un certo punto, il tempo mi è sfuggito di mano e i minuti sono diventati giorni, i giorni sono diventati mesi e, all’improvviso, anni. Mi sono definita femminista prima del tempo, prima di comprendere che il femminismo fosse plurale, che contiene moltitudini e che il mio, ai suoi albori almeno, fosse lesbofemminismo. Se “prematura” è una cosa che avviene troppo presto, prima del tempo debito, come si chiama quella malattia che manca di rispetto ai nostri tempi singolari (diversi per ogni persona) e ci fa sentire di essere in ritardo sui tempi (di chi?) e fuori dal tempo? Ho imparato che questa malattia si chiama capitalismo.

Vengo da un paio di paesi della provincia di Taranto e, lì, le lesbiche è difficile incontrarle. Lì, ma un po’ ovunque. (E spesso non è sufficiente incontrare una lesbica perché ho incontrato anche lesbiche che votano Salvini). Se hai un’espressione di genere “femminile”, il tuo lesbismo è invisibile. Come il mio. Profondamente sola, invisibile ma comunque mostruosa. Ancor prima di conoscere la parola femminismo, la mia lotta quotidiana era occupare lo spazio alla meglio in un luogo in cui non esistevo ma pregno comunque di stereotipi su di me. Ero già femminista, ma non lo sapevo. Sono arrivata al femminismo inconsapevolmente. Vedevo i video su YouTube di Irene Facheris e approdai, un giorno, sulla pagina Femminismo di Wikipedia, dove venni a conoscenza di un articolo di Anne Koedt dal titolo Il mito dell’orgasmo vaginale. Per la prima volta, leggevo parole che parlavano di me e davano valore a quello che sentivo. Qualche anno dopo, sempre inconsapevolmente ma guidata dal flusso del mio sentire (la psicoterapia serve), mi sono iscritta a un Master in Studi di genere. Io, che vivo nell’aria, ho capito solo durante le lezioni che stavo seguendo un master sui femminismi. Che mi ha rivoluzionato la vita. 

Alcune delle cose che i femminismi mi hanno insegnato:

[1] la parola compagnə

[2] il consenso

[3] che il capitalismo è un mostro che sta sopra di tutto, di cui il patriarcato ne è uno strumento

[4] cose che dovrebbero essere semplici1, come la potenza di dire grazie, e il fatto che i miei sentimenti e i miei pensieri hanno valore, sono validi nella loro singolarità

[5] che non esiste una storia unica: quella che ci hanno insegnato è solo una versione, spesso molto brutta | che ogni cosa può essere messa in discussione | che ogni soggettività ha la sua verità | che possiamo trovare nuovi modi e inesplorate possibilità per abitare il mondo e raccontarci, a partire da noi e dal corpo che abitiamo | che siamo creature fatte di preziosissime storie

[6] che esistono tanti generi

[7] i nomi delle cose che mi fanno soffrire: sanismo, classismo, capitalismo, lesbofobia, transfobia, sessismo, abilismo, razzismo

[8] intersezionalità, come parola e strumento (provo a metterla in pratica chiedendomi: chi resta esclusə?)

[9] che quando arrivi ad apprendere una nuova conoscenza, non puoi più lasciarla andare via (e questo può diventare una condanna per le persone che, come me, sono malate di tristezza)

Vedo il femminismo come una lente, un filtro, una metodologia dai confini indefiniti e, da un altro punto di vista, un’utopia irrealizzabile fino a quando morirò. Ho creduto (e a volte credo ancora) fosse un’utopia realizzata e questa illusione (come tutte le illusioni?) a volte mi ha tradita e mi tradisce. A volte mi sembra di non conoscerne le regole (il femminismo ha delle regole?) e di non essere abbastanza. A volte mi mette ansia. Se femminismo è cura e spazio safe e non-giudizio, cosa ne facciamo di tutte quelle volte in cui non è così? Anche incuria, disattenzione, giudizio, dinamiche di potere e violenza abitano gli spazi trans\femministi, forse inevitabilmente, perché veniamo tuttɜ2 da quella stessa cultura eterocispatriarcale, sanista, abilista, capitalista, classista, lesbotransfobica, sessista e razzista di cui ne abbiamo radicate le metodologie.

Mi torna in mente una frase che, durante il master, una docente ci disse, qualcosa come che i femminismi non sono spazi pacifici né pacificati. Una grande verità.

Non ho ancora imparato tante cose.

Tante cose potrei\dovrei\vorrei ancora decostruire.

Sto imparando che non bisogna decostruire tutto per forza.3 Per forza non è femminista.

Devo molto alle persone. Senza di loro, non avrei imparato tutte queste (e altre) cose. E devo molto anche a me, per averlo reso possibile. 


  1. Mi piace tanto questa parola, viene dal latino “sine plica” (senza pieghe), ma adoro ancora di più la parola complessə, che viene sempre dal latino, “cum plica” (con le pieghe). ↩︎
  2. Domanda non retorica: esiste qualcunə che non sia natə e\o cresciutə e\o che non abbia assorbito in qualsiasi modo la cultura patriarcale? ↩︎
  3. Niente dovrebbe essere per forza. ↩︎

10 centimetri

Rachele Borghi

Era bassa. Diceva che avrebbe voluto essere alta. Pare che la sua vita sarebbe stata diversa se avesse avuto 10 cm. in più. Avrebbe potuto diventare modella. Il suo fisico glielo permetteva. Aveva belle tette, culo a mandolino, pancia piatta, gambe dritte, tutto al suo posto, tutto giusto. Lei lo sapeva, le piaceva, essere guardata, essere desiderata. Essere cercata dagli uomini ma, a volte, anche dalle donne. Con 10 cm di più avrebbe potuto fare della sua bellezza che rispondeva perfettamente alle norme di quegli anni, la sua professione.

10 cm di piu e la tua vita avrebbe potuto essere diversa, avresti potuto fare i soldi, avresti potuto realizzare i tuoi sogni. Ma i propri sogni bisogna conoscerli per poterli realizzare…C’è sempre il rischio che i tuoi sogni non siano proprio i tuoi, che quelli che cerchi di realizzare siano i sogni assegnati dai ruoli sociali, realizzare i sogni che ti hanno insegnato che sono i tuoi sogni.

Si è sposata a 28 anni. Una vecchia in quegli anni. Aspettava il principe azzurro che l’avrebbe salvata da un padre assurdo che le rubava i soldi, che le uccideva le speranze. Sapeva che il cavaliere che l’avrebbe salvata da una vita povera di cose e di affetti sarebbe arrivato, per forza, secondo quello che dicono le donne, arriva sempre.

Quello che non sapeva è che si era già salvata da sola…

Si era salvata quando aveva deciso di andare a vivere da sola a 20 anni. Ma anche prima, quando aveva trovato il modo di scappare dalla casa di suo padre e andare a ballare la domenica pomeriggio con i soldi rubati a suo padre ladro. Si era già salvata quando aveva messo da parte la somma che le serviva per comprare una macchina e essere libera di andare dove voleva. Ma a dire il vero si era salvata pure prima, quando aveva imparato a pattinare per aumentare i kilometri e diminuire il tempo, fregare suo padre e il patriarcato con lui.

Continuava a salvarsi quando portava delle minigonne e dei sandali aperti durante l’inverno e che la gente la guardava. Perché pare che una donna moglie e madre non debba mostrare le gambe (e a quanto pare neanche i piedi).

Ma tutto questo lei non lo sapeva. Non importa, gliel’ho detto io quando l’ho scoperto. Quando ho scoperto che esiste un femminismo del quotidiano praticato da donne ignoranti, da donne che ribaltano lo spazio domestico, che trasformano lo spazio d’oppressione in spazio di resistenza. Quando ho scoperto che le donne come lei avevano creato nello spazio domestico quella stanza tutta per sé dove le figlie potevano diventare delle guerriere, dove le fatine potevano trasformarsi in streghe. E ho capito che la sua libertà aveva costruito la mia.